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Sigfrido Bartolini, Piero-Il riserbo del genio

Cinquecento anni dalla morte di Piero della Francesca, mezzo millennio che assomma tempi infinitamente lontani se guardiamo alla narrazione dei suoi dipinti, al mondo, incantato, mitico, che evocano i suoi personaggi, ma anche cinquecento anni che si annullano  fino ad apparire attualità se consideriamo le sue soluzioni pittoriche e la capacità di coinvolgerci nel suo mondo ideale e reale, nel clima di festa pacata, di nobili sentimenti e contenuti sottintesi, ai quali ci accostiamo conquistati dal suo genio pittorico. 

Dopo la sconvolgente apertura alla realtà operata da Masaccio, Piero della Francesca segna ancora un evento eccezionale nella storia della pittura, divenendo egli stesso un riferimento d’obbligo per i suoi contemporanei e successori, una guida ancor oggi attualissima per le sorprendenti anticipazioni di forme e colori, per la libertà d’invenzione e composizione, per quella ricorrente astrazione da matematico pittore.

Se Masaccio dà ai rozzi pescatori del Vangelo la solennità senatoriale, che è poi quel piglio di naturale dignità riscontrabile in certi contadini toscani, quali poteva trovare nella sua Valdarno, Piero schiera una corte di notabili, di ottimali tra i quali poteva iscrivere sé stesso, non alieno da incarichi pubblici che forse lo distolsero fin troppo dal suo compito di pittore.

Ci è nota la sua lentezza nell’assolvere le commissioni delle pale d’altare e affreschi, l’uso, se non proprio abuso, di aiuti nei suoi lavori e constatiamo come il catalogo della sua opera sia piuttosto scarno, seppure di alta qualità, non avendo a scusante, come Masaccio, una morte precoce. Legatissimo alla sua terra d’origine, dopo l’apprendistato fiorentino rare volte abbandonò Sansepolcro, contento di una vita da signore di paese, di notabile del posto, e con il pensiero spesso rivolto agli studi prediletti di matematica, geometria e prospettiva. Studi che ci ha lasciato il De prospectiva pingendi,un piccolo trattato su l’aritmetica e la geometria e il De quinque corporibus regolaribus, per i quali rubava il tempo alle commissioni d’arte e  che finirono per assorbirlo totalmente non appena concluse volontariamente la sua grande stagione pittorica.

Al posto dell’impeto masaccesco, o di quella che sarà la tensione michelangiolesca, Piero ha la calma del narratore che svolge il proprio tema organizzando con rigore geometrico la composizione. Sembra che la sua prima preoccupazione sia quella di una divisione armonica degli spazi da perseguirsi con rigore matematico; gli stessi cieli, nelle ampie superfici degli affreschi quando non siano interrotte volutamente da alberi o vessilli a bella posta spiegati al vento, sono regolati dalle toppe irregolari delle nuvole, stracciate e frastagliate per creare un ritmo apparentemente libero, in realtà controllatissimo, di pieni e di vuoti.

"Guardia del corpo” La narrazione di Piero è pacata e rigorosa: attorno a una Madonna compostissima, che neppure al Bambino è permesso distogliere dal compito di simulacro, una teoria di angeli e santi ne compongono la corte, come una guardia del corpo perennemente sull’attenti. Inutile cercare sentimenti op stati d’animo nei volti ugualmente atteggiati all’alto compito; siano angeli, santi o committenti, restano tutti compresi in un doveroso riserbo che non può ammettere un cenno di sorriso e men che mai una confidenza. Per parlare dei personaggi di Piero occorre esprimersi per opposti, quasi per ossimori: viva immobilità, potenza trattenuta, pensieri nascosti dietro la cortina impenetrabile dello sguardo. Per questo Piero non ha bisogno di mutare fisionomie, salvo quanto basta a diversificare i santi (o i committenti) con la tonsura o gli attributi. I volti delle sue donne sono uno stereotipo di sua invenzione vivificato ogni volta con impercettibili varianti; siano madonne, regine o dame del seguito hanno tutte un volto liscio, occhi da armadillo e sguardo fisso; non che sia uno sguardo assente, tutt’altro, ma è unicamente compreso nel ruolo di testimone indifferente eppur conscio. Si veda la Madonna di Senigallia,la vergine, il Figlio e gli angeli sono indubitabilmente della stessa famiglia: biondi, di tipo nordico.

Il riferimento a Masaccio è ancora d’obbligo per parlare del paesaggio di Piero. E’ Masaccio che per primo risolve realisticamente un cielo con le nuvole, sbozza monti possenti e alberi non più stereotipi. Piero s’inoltra arditamente per questa via, appena tracciata, anticipando addirittura quello che sarà il paesaggio inteso modernamente: gli alberi tendono a differenziarsi secondo la specie, con diversa fronda e rete di rami osservati sul vero, un fiume scorre attraversando la composizione e le acque rispecchiano alberi e case, case che già occupano un notevole spazio e importanza nel paesaggio appena riscoperto. Negli affreschi, in quella storia che copre le pareti della cappella maggiore nella chiesa di San Francesco in Arezzo, Piero dispiega la sua fantasia, il suo mondo di fiaba a piene mani.

“Grandi superfici” – Le grandi superfici murali da riempire sono sempre risultate il banco di prova e il salto di qualità per gli artisti chiamati a rinnovare la tradizione della grande decorazione murale iniziata a Pompei. Gli spazi e la sobria, schietta e impegnativa tecnica dell’affresco attraggono e invogliano l’artista come nessuna delle altre tecniche può fare. All’ampiezza della superficie si unisce l’obbligo, per l’artista, di concludere velocemente la porzione di lavoro scelto per la giornata. L’intonaco da dipingersi finché è in grado di assorbire il colore e fissarlo nel processo di carbonatazione della calce, costringe alla destrezza e alla precisione per ridurre al minimo i pentimenti e le relative correzioni “a secco”, che immancabilmente si ribelleranno nel tempo. E’ negli affreschi che anche la fantasia di Piero può sbizzarrirsi, aprirsi alla fiaba che assumerà connotazione di festa, di cerimonia antica e di palpitante attualità. Nell’affresco può spiegare le forme amate dei vessilli e inventarne le insegne, pensare copricapo enormi e fantasiosi, far muovere i personaggi nel paesaggio e risolvere il primo notturno nella storia della pittura, con quel capolavoro senza tempo che è Il sogno di Costantino. Il sogno di Costantino unisce il tempo mitico all’attualità, come la Battaglia di Costantino o La disfatta di Cosroe richiamano la pompeiana Battaglia d’Isso. Nella grande arte il tempo reale può scomparire per avvicinare tra loro i capolavori di tutti i tempi frutto di un unico sublime impegno.   (Sigfrido Bartolini)

                                                                               

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